29 luglio 2021

Una lettera della Senatrice Albertina Soliani, Presidente dell'Istituto Alcide Cervi

Una lettera di Albertina Soliani
Condividiamo con piacere la lettera della Senatrice Albertina Soliani, Presidente dell'Istituto Alcide Cervi


Cari Amici,

un luglio di memoria, al Campo di Fossoli, a Strela di Compiano, a Casa Cervi.
Un luglio di tragica attualità, in Birmania.
E nel resto del mondo.
Un tempo forte per la nostra coscienza umana, per la nostra scelta democratica.
Lo stesso luglio, ieri e oggi.
La sera del 25, a Casa Cervi, eravamo in 800 a festeggiare, secondo le regole anti-covid, la pastasciutta dei Cervi per la caduta di Mussolini. A stare insieme con gli stessi sentimenti. Abbiamo ascoltato i rappresentanti delle istituzioni, poi Gianfranco Pagliarulo, Presidente Nazionale dell'Anpi, e infine Marco Damilano, così caro a tutti.
Ricordavamo quel giorno del 1943 ma il pensiero era sull'oggi, sulla nostra democrazia, su come ci regoliamo nella convivenza, anche tra vaccini sì e no. Di fronte a una pandemia. La mia scelta ti riguarda, la tua scelta mi riguarda. La democrazia al tempo della peste, è più vero dire così. Davvero ne usciremo migliori, dentro?

L'11 luglio, al Campo di Fossoli, presso Carpi, sono stati commemorati i 67 fucilati dai nazisti, in gran parte esponenti politici e intellettuali. La classe dirigente democratica della nuova Italia. Alcuni di loro erano in contatto con Ursula Hirschmann, legata a Ventotene, dove Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni stavano pensando la nuova Europa. Il pensiero superava ogni barriera, il pensiero democratico che ha forgiato le nostre vite.
Al Campo di Fossoli ci sono stati grandi discorsi di Pier Luigi Castagnetti, Presidente della Fondazione Fossoli, di David Sassoli, Presidente del Parlamento Europeo, e di Ursula von der Leyen, Presidente della Commissione Europea. Cercateli sui siti, sono pensieri di consapevolezza, di eticità, di visione. Niente di meno ci è necessario oggi.
Vi è una missione storica oggi per i luoghi di memoria, per gli istituti che se ne occupano, compreso l'Istituto Nazionale Ferruccio Parri di Milano, costituito dalla rete di tutti gli istituti italiani. Non sono soltanto un patrimonio di memoria da custodire, ma l'attualità della resistenza da presidiare.
A Strela, un pugno di case sull'Appennino parmense, la commemorazione il 19 luglio del rastrellamento d'estate, con 17 civili innocenti fucilati contro il muro del cimitero, tra loro due preti. Il parroco, nell'omelia, ha citato Paolo VI, il suo discorso all'ONU nel 1965 sulla pace. Tutto si tiene. La pace come unica via d'uscita dopo il conflitto. Segretario Generale dell'ONU era U Thant, grandissimo birmano. Vado spesso sulla sua tomba a Yangon.

Non cambio registro rispetto alla memoria e vi racconto qualcosa di questo luglio in Myanmar. Oppressione continua, resistenza. Ieri i militari hanno cancellato le elezioni del 2020.
Il covid dilaga. Si ammalano e muoiono di covid, in carcere, i dirigenti, soprattutto anziani, dell'NLD. È l'estinzione di una generazione politica.
Il popolo intero dice no ai militari e, dunque, per i militari il popolo è un nemico da sterminare. Dominano paranoia, paura, interessi, violenza: un mix disumano. E il resto dell'umanità, come vediamo, non sa fermarlo.
Alcuni nostri amici sono ammalati, altri aiutano tutti.
Il Card. Charles Bo, nell'ultima sua omelia, ha invocato: “nutrire il popolo di pace e guarigione”. Mentre l'analista politico Naing Khit scrive su The Irrawaddy: “Finché l'attuale razza di generali militari sopravvive in Myanmar, il Paese sarà costretto a convivere con risultati elettorali ribaltati, il rifiuto della scelta democratica del popolo e la cacciata dei governi eletti con la pistola puntata”.
La conclusione è che i militari debbono essere semplicemente cacciati. Il rapporto tra resistenza e pace è strettissimo. La pace di un popolo è sempre a caro prezzo. Viene da una resistenza, morale e materiale, non da un'attesa inoperosa. Nell'attesa inoperosa vincono i malvagi. Gli eccidi, come quello di Strela, sono oggi in Myanmar, nelle città e nei villaggi, nello stesso modo di allora. Ieri i nazifascisti, oggi il Tatmadaw.
Di Aung San Suu Kyi in questi ultimi giorni non ci sono notizie, sospese le udienze del processo. Sappiamo che l'avvocato le fa avere il cibo.

È un cammino di liberazione, quello del popolo del Myanmar, senza ombra di dubbio. Nei giorni scorsi la liturgia cattolica offriva la lettura del libro dell'Esodo, l'uscita degli ebrei dalla schiavitù dell'Egitto:
“In quella notte Io passerò per la terra d'Egitto e colpirò ogni primogenito nella terra d'Egitto, uomo o animale; così farò giustizia di tutti gli dèi dell'Egitto. Io sono il Signore! Il sangue sulle case dove vi troverete servirà da segno in vostro favore: io vedrò il sangue e passerò oltre; non vi sarà tra voi flagello di sterminio quando io colpirò la terra d'Egitto. Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore: di generazione in generazione lo celebrerete come un rito perenne”.
In questi giorni alle finestre del Myanmar la gente espone indumenti gialli per segnalare il covid-19, e indumenti bianchi per la mancanza di cibo e di acqua.
Il popolo è in piedi: “con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano”. Letteralmente.
Anche il Mosè del Myanmar, Aung San Suu Kyi, è agli arresti, oppressa dal regime e, credo, dal dolore per la sua gente.
Chi li libererà?

A presto,
Albertina.